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giovedì 3 febbraio 2011

Buropazzia

Welcome to Istanbul again.
E' quasi una quindicina di giorni che sono tornata ad Istanbul ed ancora non sono riuscita a cominciare la mia ricerca. La lunga via crucis per uffici sembra appena cominciata dato che spuntano fuori nuovi sportelli da visitare, in cui transitare in ogni posto in cui mi reco.
Come primo passo ho dato un occhio alla mia lettera di accettazione, scorrendo le mille informazioni ed ecco finalmente il contact institution.
Mi lancio quindi verso l'indirizzo del contatto datomi dall'Ambasciata. L'ufficio è dentro la corte di un liceo, mi viene indicato il primo piano dove c'è un gruppo di vispe terese che mangiano e brindano in onore, apparentemente, del continente africano.
Una ragazza guarda incuriosita i miei documenti e attacca una lunga tiritera turca. Alle poche domande che capisco rispondo, entusiasta. Poi la conversazione mi sfugge di mano, prendendo una piega un po´ troppo complessa e cerchiamo qualcuno che parli una lingua a me nota. Troviamo quindi un bravuomo impegnato in una filosofica conversazione in francese. Non me ne rendo nemmeno conto ma il mio viso si è contratto involontariamente in un sorriso, come quelli che fanno certe scimmie per mostrare i denti. L´homme agè mi spiega tutto l´iter burocratico che devo seguire come se fosse un gioco con traguardi da superare senza i quali non si può raggiungere il livello successivo.



Il primo traguardo e l´Istanbul Universitesi dove all´entrata mi attendono una decina di guardie armate a cui mostro i miei mille documenti. Uno di loro, che sembra avere sedici anni, mi accompagna nel laboratorio di preistoria dove incontro un dottorando che parla un impacciato inglese. La grande aula didattica sembra arredata da un collezionista d´arte dell´Ottocento. Negli scaffali sono accatastati alla meglio miliardi di esempi di ceramica neolitica. Ogni tanto spunta un cartellino: Cayönü, Mersin....
Ozan, che significa cantore, il dottorando, mi accompagna dalla sua professoressa per le presentazioni: peccato non sia a conoscenza ne del mio arrivo ne minimamente del mio progetto. Sembro essere spuntata dal nulla e sembra non ci sia niente da fare per aiutarmi. Il consiglio della professoressa, rivelatasi essere nient´altro che la padrona di casa di Ombra (quella nella strada dei ricambi per auto e dei disponibili donnoni russi per intendersi) è bussare a tutte le porte di un lungo corridoio che sembra prestato dalla sceneggiatura di Shining. La porta fortunata è ovviamente l´ultima. Ben presto quattro signorine si dedicano alla mia causa, ritrovando il mio tomo di documentazione inviato dall´Italia.
E´ il Professor ´´Tonno´´ che ha accettato il mio progetto - diligentemente scritto in francese – il capo del dipartimento. Il cantore resta al mio fianco, in silenzio. Quando chiedo a Ombra se per caso conoscesse questo ragazzo mi informa che sono compagni di corso, commentando: “Certo che ti ha dato una mano. Lui è una di quei turchi che si mostrano gentili quando vedono arrivare una ragazza straniera!”. Sarà anche così ma almeno lui una mano me la dà.
Nonostante le quattro segretarie siano molto zelanti devo ripassare altre due volte in dipartimento per riuscir ad ottenere tutti i documenti necessari a superare le difficoltà di questo primo livello, senza ancora comunque poter iniziare il mio lavoro vero e proprio.
Sono a dir poco esausta, specialmente oggi, dato che nonostante tutti gli sforzi - tra i quali una visita all´´ufficio delle entrate turco per richiedere un dubbio ´´´tax code´´- mi ritrovo seduta in un bar e pensare al da farsi.

La mia ansia da documentazione purtroppo non finisce qui. Alla quarta visita in banca riesco ad aprire il conto corrente, inutile dire che non ho ancora la carta. Raggiungo lo schema della stazione di polizia ma non riesco ad arrivare al punto di salvataggio. Prima vado alla stazione centrale che più che altro sembra un centro di profughi. Gli stranieri qui però siamo noi, gli europei, gli occidentali, i soliti capitalisti. Dopo una mattinata spesa qui ci viene dato un minuscolo bigliettino con scritto sopra l'indirizzo del sito internet dell'Ufficio per stranieri. Si viene ricevuti solo previo appuntamento on-line, e-randevu. Peccato che non c'è posto fino a Marzo, peggio che prenotare una visita da uno specialista all'Asl. Cerco di aggirare il problema prenotandomi per un appuntamento in un altro Ufficio, un po' più periferico. L'idea non va a buon fine. Due giovanissime poliziotte e un altro ufficiale mi fanno capire che solo la sede principale può rilasciare i permessi di soggiorno. Un'ora per capire questa piccola ma fondamentale informazione. Eh si, perché nell'Ufficio per stranieri nessuno si è voluto prendere la briga di imparare una lingua straniera. Quando mi mostro stranita per questa profonda barriera comunicativa i simpaticoni ironizzano, mi chiedono se nel medesimo Ufficio in Italia parlino turco. Mi sembra di aver trovato i cugini dei nostri carabinieri. Poi mi consola dicendo che avere l'appuntamento per Marzo alla fine non è poi così male perché almeno avrò il tempo di migliorare il mio turco in modo da poter capire e farmi capire.

Il culmine di questa avventura burocratica lo raggiungo il Lunedì, alla mia seconda gita alla I.E.T.T., la compagnia di trasporti locale. Dopo avermi consegnato per la seconda volta la carta sbagliata, con sconto per studenti invece di quella gratuita, mi inizio ad infastidire.
Più volte ripeto che ci sia un problema ma nessuno mi vuol dar ragione. Chiedo di parlare con un superiore, che parli inglese.

Un alto manichino in completo grigio e cravatta nera plasticata mi fa accomodare nel tugurio del suo ufficio. Con calma mi spiega che io non ho diritto alla carta che chiedo, essendo italiana. Io insisto fino alla nausea ma lui non perde il controllo, fermo nella sua posizione, affermando che solo gli studenti e i ricercatori che ricevono una borsa di studio dal governo turco ne abbiano diritto. Non ci sente da nessun orecchio quando lo informo che io sono, a tutti gli effetti, borsista del suo fantomatico governo. -Non può essere, impossibile- replica. -Sei italiana, non turca-. I toni della conversazione diventano più acri. Sono io che perdo il controllo. Con tutto il tempo che mi fanno perdere nei vari uffici mi impediscono di fare quello per cui sono venuta: lavorare per loro, pagata da loro. Mi sbatte in faccia la sua arroganza cercando tra i documenti della cartellina che mi porto sempre dietro, afferrandoli lesto dal tavolo sul quale li avevo appoggiati. Questo è troppo. Levarmi praticamente di mano i miei documenti, senza un minimo cenno di richiesta, ciancicarli tutti e cercando di spulciarli da cima a fondo, non è concepibile. Non mi resta che reagire all'affronto. Ormai sono esplosa e intercalo insulti in italiano da frasi del tipo -It's not your business!-. Un'ora e varie telefonate dopo sono ancora là. Il damerino non riesce ad accettare il fatto che io abbia avuto ragione per tutto questo tempo. Mi invita ad aspettare fuori con lo sguardo arcigno e il fumo che gli esce dalle orecchie. Ancora non ho in mano quello per cui sono venuta, sono stata trattata come una criminale e la rabbia più che calare mi monta a livelli esponenziali. Sbatto la porta. Inveisco contro tutti. *Mutazione scaricatore di porto attivata*.

Tornando a casa, sotto il cavalcavia incontro un mendicante che cammina a zig-zag con in mano un sacchetto che contiene uno strano liquido verde – il suo vomito. Punta un passante in completo e ventiquattrore rincorrendolo con le braccia protese verso di lui e additandogli il sacchetto ovviamente.
Devo proprio cambiare quartiere.

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