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sabato 30 ottobre 2010

Formicolio turco (30/10/2010)

Non so se senza l'ausilio di una birretta riuscirò nel mio intento, ma ci proverò lo stesso.

E' tutto il giorno che mi arrabatto cercando di ficcare nel mio cervello più informazioni (turche ovviamente) possibili. Sono uscita solo per comprare quelle cose che si appiccicano sulle finestre per parare gli spifferi. Anche in italiano ignoro il loro nome, Sidar mi ha infatti accompagnato, tornato distrutto da lavoro. Per la fatica? No, solo perché aveva sonno.
Ho anche osservato compiaciuta la preparazione dei börek. Fossette è una vera padrona di casa: armata di grembiule, frusta e minipimer gestiva contemporaneamente più pentole. Per ora sto imparando, se non a cucinare come loro, a mangiare come loro.

Ieri ho potuto constatare che, dopotutto, questa zona non è poi così male. Ho impiegato 15 minuti a piedi per arrivare a Hagia Sophia, passando per la Istanbul Universitesi (mise 4, vecchio repertorio 2008) e il Gran bazar. 



Almeno ho distaccato gli occhi da pezzi di fanali e carburatori.
Nessuno per strada mi dava volantini o mi cercava di fermare, che fortuna non essere nata bionda!
Il vento è aumentato, le labbra cominciano a spaccarsi gradualmente.
Mi rendo conto di stare diventando un po' apatica.

Avete presente quel formicolio che si prova quando si cammina per la prima volta su una strada che non si conosce? Quell'eccitazione che si prova ad esseri immersi in un'altra cultura, realizzando la fortuna che si ha nel cogliere certi tratti tradizionali e magari viverli? Ve la ricordate?
Bhè, io me la ricordo.
Più o meno questa era la mia faccia la prima volta.
(mise 5)



Pensavo che tornando in questo luogo d'incontro tra la nostra santa religione e la loro avrei trattenuto il fiato, ancor più della prima volta.
Spero sia solo una questione meteorologica, o il fatto che le miriadi di turisti spazzino via tutta l'atmosfera.
Riesco comunque a ordinare il mio primo pasto pasto in turco, con l'aria compiaciuta del tipo del baracchino.
Quindi mi riavvio a casa, contenta di poter passeggiare sotto una pioggia impercettibile, con le cuffie che suonano a vuoto a causa della batteria scarica, pessima fine, analoga a quella delle pile della mia macchina fotografica. Direte voi, potevi anche comprare delle sostitute, ma il mio genio aveva scordato che quelle che mi servivano dovevano avere “four A”, disse Sidar il fotografo.

Due chiacchere, non di più, concesse dal mio coinquilino mi fanno arrivare alle 18. Salpo verso Taksim per incontrare un'altra bellissima turca. Suzi mi aspetta al Galatasaray Lisesi e mi porta nelle rete di stradine affollatissime lì dietro. Ci sediamo e il tempo passa velocissimo. Mangiamo e beviamo. Rispondo a un turco che mi chiede l'accendino che di tutta risposta si stupisce del fatto che l'abbia capito. C'è da dire che una delle prime cose che impara un fumatore, ancor prima delle parolacce, sia proprio chiedere da accendere. Ad un certo punto, mi sento chiamare per nome e qualcuno mi si rivolge in un italiano un po' impacciato: una mia studentessa di Firenze. La sua sorpresa è commista a un leggero fastidio. Ho orinato nel suo territorio e probabilmente non è troppo contenta la prima della classe.
Giunge il coprifuoco di Sidar. Si è raccomandato di chiamarlo nel momento in cui sarei salita sull'autobus del ritorno. Il mezzo è ancora più saturo che durante il giorno, a malapena scendo e scopro con piacere che il quartiere è ancora vivo. Il mio cellulare mi richiama alla realtà: è Suzi che si raccomanda di farle sapere quando arrivo a casa. “Arrived” scrivo – mamma, penso.

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